
Se siamo andati sulla luna è anche grazie a donne come Katherine Johnson
I computer come li conosciamo oggi ancora non esistevano cinquant’anni fa, ma c’erano delle donne, delle matematiche di colore assunte dalla Nasa come “computer umani”, computatrici, che svolgevano calcoli a mano allo scopo di studiare le traiettorie di volo delle missioni spaziali.
Katherine Johnson, nata Coleman, ha 101 anni e vive in Virginia circondata da uno stuolo di nipoti e pronipoti. Nel 2015, accolta da una standing ovation, riceve dalle mani dell’allora presidente degli Stati Uniti d’America Barack Obama la massima decorazione degli Stati Uniti, la Medaglia presidenziale della libertà. Viene conferita a coloro che hanno dato: “un contributo meritorio speciale per la sicurezza o per gli interessi nazionali degli Stati Uniti, per la pace nel mondo, per la cultura o per altra significativa iniziativa pubblica o privata“.

Nel 2016 un film meraviglioso che si chiama “Il diritto di contare” (in inglese “Hidden figures“, figure o anche cifre matematiche, nascoste) celebra la sua storia insieme a quella di altre due matematiche afro-americane al lavoro “dietro le quinte” delle missioni spaziali. Una bellissima storia non solo di emancipazione femminile in un ambiente, quello dell’ingegneria aerospaziale, prevalentemente maschile, ma anche e soprattutto razziale, in un periodo storico fatto di lotte e manifestazioni.
Nata nel 1918, ultima di quattro fratelli, in una famiglia di White Sulphur Springs, paesino sperduto della Virginia, fin da piccolissima dimostra una spiccata predilezione per i numeri e la matematica. Conta sempre e conta tutto, i piatti che lava, i passi che la portano alla Chiesa presbiteriana, le stelle che vede nel cielo. I genitori fortunatamente assecondano questa dote e le permettono di studiare. Salta direttamente in quinta elementare e si trasferisce a Institute per seguire il liceo per afro-americani in cui si diploma a 10 anni. Bambina prodigio si iscrive all’università grazie ad una borsa di studio per laurearsi poi a soli 14 anni, dopo aver costretto l’università a istituire nuovi corsi di matematica solo per lei. Ma per una donna di colore nel 1937 la strada per la ricerca universitaria è praticamente sbarrata, quindi Katherine inizia ad insegnare e lo fa per 10 anni. È anche l’unica donna (e una dei 3 unici afroamericani) ammessi al dottorato nel 1939 nell’università per bianchi West Virginia University quando l’università ha deciso di infrangere il segregazionismo educativo per imperativo legale (una sentenza della Corte Suprema). Decide di non continuare, torna a insegnare, conosce e sposa James Goble, da cui ha tre figlie: Costanza, Joylette e Katherine. Dopo la morte di James per un tumore al cervello nel 1956, si risposa nel 1959 con James Johnson, veterano della guerra di Corea.

Katherine e James continuano a insegnare. Fino a che, per caso, un parente di James nel 1952, in piena corsa allo spazio, le comunica che l’ente spaziale antecedente alla Nasa, la Naca, è in cerca di matematiche. Anche nere. Un’occasione d’oro per Katherine.
Assunta nel 1953, ha contributo a cambiare la storia dell’esplorazione spaziale. Il suo lavoro consiste nel fare i conti. Una «computer» umana, una calcolatrice, nell’epoca prima dei computer. All’inizio, il compito di Katherine e delle sue colleghe era di prendere dei numeri dalle scatole nere degli aerei e fare un mucchio di calcoli. Ma a un certo punto, viene assegnata ad aiutare un team di ricerca (di soli uomini, bianchi naturalmente). Ma nonostante la discriminazione che comunque deve sopportare, i bagni separati e i piccoli e grandi soprusi, gli artigli del razzismo di stato sono, per fortuna, meno affilati dentro la Naca (Nasa dal 1958, dopo il lancio sovietico del primo Sputnik) e Katherine, con il suo caratterino diretto e le sue capacità fuori dal comune, riesce a essere ammessa ai meeting di soli uomini e a ottenere, grazie alle sue doti soprattutto in geometria, una posizione e un salario migliore. E persino a poter firmare col suo nome i rapporti, la prima donna a farlo alla Nasa.

È stata Katherine a calcolare l’orbita del primo americano nello spazio, Alan Shepard, nel 1961, poco dopo il volo del russo Gagarin. Lei a calcolare la finestra di lancio per la seconda missione Mercury, quello stesso anno. Quando è stato il turno di John Glenn di volare, nel 1962, ha preteso che Katherine rifacesse tutti i calcoli ottenuti dal primo computer IBM 7090. «Fate ricontrollare alla ragazza i numeri. Se lei dice che sono esatti, sono pronto a partire». Un uomo bianco del nord che affidava le sue sorti a una donna nera del sud: una potentissima inconsapevole metafora. Sempre lei che aiutò a calcolare l’orbita dell’Apollo 11 che avrebbe fatto la storia in quel 1969. E infine lei che preparò manuali con orbite lunari in caso di problemi: uno di questi manuali è stato essenziale a riportare a casa gli astronauti dell’Apollo 13. Impresa ricordata nel film di Rom Howard, Apollo 13.
Rimane alla Nasa fino alla pensione, nel 1986.

«Mi piaceva il lavoro. Mi piacevano le stelle e le storie che stavamo raccontando. Era una gioia poter contribuire alla letteratura che stavamo costruendo. Ma non mi sarei potuta immaginare che saremmo andati così lontano».
L’impatto sociale di questa donna come pioniere nella scienza spaziale e nell’informatica, può essere visto sia dai riconoscimenti che ha ricevuto, sia dal numero di volte che la sua storia viene rappresentata come modello. Dal 1979, prima che si ritirasse dalla NASA, la biografia della Johnson riceve un posto d’onore nelle liste di afro-americani che si sono distinti nel campo della scienza e della tecnologia. Il 5 maggio 2016, le viene formalmente dedicato, al Langley Research Center a Hampton, Virginia, il nuovo impianto, Katherine G. Johnson Computational Research.
La ricercatrice è inclusa nella lista della serie televisiva 100 Women, che contiene un elenco di 100 donne ispiratrici e influenti di tutto il mondo.
Ciliegina sulla torta la Mattel le dedica una Barbie.

Per approfondire: Il diritto di contare (Hidden figures) di Theodore Menfi, 2016. Tratto dal libro Hidden Figures: The Story of the African-American Women Who Helped Win the Space Race di Margot Lee Shetterly.
Fonte: www.wikipedia.it www.ilmanifesto.it www.wired.it

