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Una nuvola in testa: la distimia

Distimia: da dove proviene questo strano vocabolo, che pare alludere a qualcosa di endocrinologico piuttosto che psichico?

È un termine composto derivante dal greco antico: dys (alterazione, disarmonia) e thymos (centro emozionale/affettivo). Per i greci antichi, infatti, il nostro corpo era costituito da cinque elementi principali:

  1. soma: il corpo fisico
  2. psyché: il soffio vitale
  3. thymòs: l’anima affettiva/emozionale (responsabile dei desideri, degli impulsi e delle emozioni).
  4. fren: il centro razionale
  5. nous: l’intelligenza.

Questo termine è stato poi ripreso dal tedesco, in cui indicava una condizione cronica di anaffettività e anedonia, e oggi fa parte del linguaggio psicologico/psichiatrico. Esso designa un disturbo dell’umore minore e cronico, a differenza della depressione che si manifesta sotto forma di episodi invalidanti e della durata inferiore ai due anni (anche se reiterati nel tempo). Può emergere durante l’adolescenza o in età più avanzata e tende a durare anni, o addirittura tutta la vita. Il distimico è spesso malinconico, pessimista, negativo nei confronti della vita; si sente privo di energie e può presentare bassa autostima e insicurezza. Tuttavia riesce a condurre una vita quasi normale sia a livello sociale che lavorativo, nonostante numerose difficoltà, e può coltivare diversi hobby e passioni. Per questo la distimia viene raramente diagnosticata: molti la attribuiscono semplicemente a una propria modalità caratteriale. Infatti si tende a parlare di temperamento distimico. Il distimico però può essere predisposto a episodi di depressione maggiore.

Quello che mi preme sottolineare in questo articolo, però, non è tanto la descrizione della malattia (ne esistono di diverse e dettagliate sui siti di psicologia, per esempio questo) né delle terapie, che possono essere psicoterapiche o combinate (psicofarmacologia): qui vorrei mettere l’accento sull’invisibilità e sul rifiuto di questa condizione cronica, spesso minimizzata dal paziente e dai familiari.

In realtà esistono persone che non solo non la minimizzano, ma la accettano così com’è, come una caratteristica distintiva e addirittura provvista di lati positivi: per esempio l’essere riflessivi, compassati, cauti, creativi.

Altri invece si sentono oppressi da questo malumore che pervade ogni lato dell’esistenza. Inoltre questo comporta un persistente senso di colpa nei confronti di chi ha altre motivazioni per essere infelice (indigenti, malati oncologici, orfani, disabili ecc.) e lo stigma sociale costante, che punta il dito contro queste personalità “ingrate”, “noiose”, “fastidiose”, benché solitamente le lamentele del distimico non siano le stesse delle persone dall’umore stabile che vogliono solo porsi al centro dell’attenzione.

Il consiglio base è anzitutto evitare il fai da te e sottoporsi a una diagnosi professionale, e poi non rigettare questa condizione come fosse una colpa o un comportamento deprecabile. Le cause della distimia non sono ancora chiare, probabilmente si tratta di un mix tra familiarità e ambiente: non parliamo quindi di un “capriccio”, di un “caratteraccio” che va educato. Si tendono a minimizzare i disturbi della mente come se questa non facesse parte del nostro corpo, ma un suo malfunzionamento è uguale a quello di una qualsiasi parte del corpo: non lo creiamo di nostra spontanea volontà.

Una volta messi di fronte alla realtà dobbiamo decidere se questa ci offre o meno qualcosa di positivo: per esempio qualche tipo di saggezza, di creatività, di anticonformismo genuino (e non di facciata).

Se invece decidiamo di alleviare i sintomi che da sempre ci fanno stare male, qualunque terapia si decida di intraprendere, dobbiamo smetterla di vergognarci e di dare ascolto a certi commenti acidi che ci identificano come “deboli”, “inetti”, “irriconoscenti”, “monotoni” ecc. Solo così potremo iniziare un percorso proficuo.

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